Giovanni Verga è morto cent’anni fa e non abbiamo ancora finito di capirlo - Linkiesta.it

2022-05-29 13:07:53 By : Ms. Jenny Shu

Il 27 gennaio 1922 moriva a Catania Giovanni Verga. Diciannove giorni fa, all’esatto compimento dei venti lustri dal decesso, non solo si è reso omaggio al caposcuola del Verismo, ma sono anche ufficialmente iniziate le manifestazioni centenarie con una serie di eventi per l’intero 2022. Su cui pesa pur sempre la spada di Damocle della banalizzazione. L’anniversario è infatti da tempo la ricorrenza a esserne maggiormente soggetta, complice l’«eccesso di memoria» che, non meno imperante di quello di oblio, risente fortemente, come ricorda Paul Ricoeur, «dell’influenza delle commemorazioni».

L’ossessivo moltiplicarsi quotidiano di celebrazioni a ricordo di persone o avvenimenti, legati a una specifica giornata e altrimenti ignorati, ha finito così per svuotare le stesse di significato. Omologati quasi gli uni agli altri, anniversari fondamentali per la nostra storia, non solo letteraria e culturale, possono infatti essere ridotti a un fatto di routine in quell’asfissiante santorale laico che si è sostituito, quando non confuso, a quello cattolico. Rischio che, incombente anche sul centesimo della morte di Verga, ha forse un potente antidoto proprio nel menzionato programma annuale di iniziative, volte a una più ampia conoscenza della sua figura.

Di programma, in realtà, si può finora parlare solo in riferimento a quello puntualmente approntato dalla Fondazione Verga e dall’Università di Catania col coinvolgimento di atenei e istituti di alta cultura italiani ed esteri quali, a titolo d’esempio, la Sorbonne Nouvelle (Paris III), l’Università di Toronto, il Centre d’étude sur Zola e le Naturalisme, l’Accademia della Crusca.

Fatta eccezione per l’annullo filatelico disposto dal ministero per lo Sviluppo economico e la messa di suffragio nella cattedrale etnea di Sant’Agata con successivo omaggio al sepolcro dello scrittore il 27 gennaio, si dovrà infatti ancora attendere per sapere di quali appuntamenti si comporrà il calendario predisposto dal Comitato nazionale per il Centenario. Comitato che, istituito dalla Regione Siciliana e composto dai sindaci dei comuni verghiani a partire da quello di Catania, da rappresentanti della Fondazione, dei quattro atenei siciliani, degli eredi Verga e Catalano, è di fatto non operativo.

La momentanea inazione è verosimilmente da ascrivere alla finora mancata risposta di finanziamento da parte del ministero della Cultura. Sul versante regionale l’assessorato dei Beni culturali e dell’Identità siciliana ha invece confermato al nostro giornale uno stanziamento, la cui entità «sarà comunicata durante una conferenza stampa in programma nelle prossime settimane». Dovrebbe trattarsi di «contributo abbastanza congruo» stando ad altre fonti di Palazzo d’Orleans.

Nell’attesa che più d’un arcano sia sciolto, le iniziative interdisciplinari, di cui si ha finora notizia nel dettaglio, si presentano comunque con caratteristiche tali da fugare l’accennato rischio di banalizzante omologazione del centenario. Contributo dunque bastevole a realizzare, per dirla con Adriano Bausola, il «significato di un anniversario»: recupero della memoria storica e riflessione attualizzante di quanto si ricorda e celebra.

Per Gabriella Alfieri, professoressa ordinaria di Linguistica italiana presso l’ateneo catanese, accademica della Crusca e presidente del Consiglio scientifico della Fondazione Verga, i congressi, le giornate di studio, i seminari, le conferenze, le letture recitate, i progetti editoriali, di cui è ricco il programma diramato, sono principalmente finalizzati a «dare un’immagine più possibile attuale di Verga sia studiandolo in concreto nell’ambito del Realismo europeo sia costruendo un grande repertorio di tutto il linguaggio del Verismo italiano». Da realizzare in collaborazione con la Crusca nelle forme di archivio e vocabolario digitale, esso richiederà ovviamente tempi superiori all’arco del solo centenario.

Ma per l’accademica a essere di particolare importanza è soprattutto «il reinserimento di Verga nel Realismo. Si tratta infatti di una linea di ricerca assolutamente nuova, avviata nel 2019 col nostro coinvolgimento al Colloquio internazionale Naturalismes du monde: les voix de l’étranger su organizzazione del Centre Zola. Nell’ottica d’un approccio scientifico tanto alla corrispondenza tra Zola e rappresentanti del Realismo d’area occidentale quanto al confronto tra i testi dell’uno e degli altri, avevamo allora proposto come Fondazione una comparazione di Verga con Thomas Hardy e Berthold Auerbach».

Un influsso del poeta e novellista tedesco sul nostro era comunque noto da tempo alla critica che, con toni più o meno assertivi, poneva nei Racconti rusticani della Foresta Nera, versione italiana delle Schwarzwälder Dorfgeschichten curata da Eugenio De Benedetti ed edita per i tipi Le Monnier (1869), la fonte diretta dei titoli verghiani Novelle rusticane (1883) e, soprattutto, Vita dei Campi, riproduzione dell’omonimo capitolo (Feldleben nell’originale) del racconto Ivo il pievanino (Ivo, der Hajrle). «Il nostro scopo – spiega ancora Gabrielli al nostro giornale – è quello di andare oltre il topico confronto Verga-Zola, che non si può assolutamente negare ma va ampliato.

Si tratta di analizzare i raccordi tematici dei vari testi dell’ampio movimento realista, che incorpora anche il Naturalismo francese e il nostro Verismo. Ma soprattutto studiare più approfonditamente quell’unico codice stilistico adoperato da autori di aree geografiche diverse che, pur non conoscendosi, respiravano la stessa aria culturale. Codice stilistico, fatto di modi di dire, proverbi, gesti, che, condiviso anche da Verga, fu da lui sublimato con la propria individualità».

Sono proprio le nuove prospettive di ricerca dell’opera verghiana a esaltarne ulteriormente la perenne attualità del messaggio, che nei decenni è stato arbitrariamente oggetto di strumentali letture etico-politiche fra loro contrapposte. Il profeta del Verismo, che Antonio Gramsci giustamente definì «crispino in senso largo» sottolineando che «in Sicilia gli intellettuali si dividono in due classi generali: crispini-unitaristi e separatisti-democratici, separatisti tendenziali, si capisce», fu infatti esaltato durante il Ventennio come precursore del fascismo grazie alla preminente esegesi bottaiana e nello stesso periodo, ma soprattutto dopo, come rivoluzionario e progressista. Lasciata, dunque, alle spalle ogni interpretazione forzata e falsata d’un «Verga politico» – parole con cui s’intitola un articolo scritto nel 1929 proprio da Giuseppe Bottai, all’epoca ministro delle Corporazioni –, la sua attualità va fatta discendere da una premessa di fondo.

«Verga – così a Linkiesta Nicolò Mineo, critico letterario e ordinario emerito di Letteratura italiana presso l’Università di Catania – è scrittore centrale nel secondo Ottocento italiano e nella svolta dal positivismo-naturalismo verso il tempo della modernità. Pur radicato profondamente nella cultura positivistica, registra i segni di una crisi e intuisce il non senso della condizione storica ed esistenziale prodotta nella realtà degli individui e di interi gruppi sociali dal modo di attuarsi del “progresso”. Sicché può anche rispecchiare, se leggiamo in chiave metaforica le rappresentazioni specifiche, una situazione non soltanto italiana. Una condizione che avverte dolorosamente, mentre rivela implicitamente valori e disvalori».

Secondo Mineo – che fu allievo alla Normale dell’illustre Luigi Russo, autore di un celebre saggio su Verga «fondamento di tutte le successive letture, non poche di grande levatura» – le suesposte ragioni permettono di ravvisare nell’autore de I Malavoglia un «punto di riferimento e di partenza per tante delle nostre domande e di antichi e attuali interrogativi: il problema delle ragioni e degli esiti delle formazioni nazionali; il problema del Mezzogiorno in generale; il problema del cambiamento nel costume, nel lavoro e nei rapporti sociali o, senz’altro, il problema del cambiamento mancato; l’attenzione ai costi in termini umani delle forme o delle insufficienze o dell’assenza della modernizzazione».

Partendo inoltre dal presupposto che «le scritture letterarie dei siciliani si sostanziano spesso di memoria, una memoria solcata da un fitto reticolo di stratificazioni, intessuto di storia e mito e immagini archetipe», l’accademico ritiene «che nella narrativa verghiana si ritrovino un’attitudine e una potenza mitopoietica come in poche altre opere moderne: miti della società che si apre, o ne è investita, al nuovo tempo. Ma il mito siciliano è più materiato di terra che di cielo, più di inferno che di paradiso. Questa è la terra dove Plutone rapì Proserpina, dove Enea seppellì il vecchio padre, dove l’Etna incombe eternamente coi suoi mostri incatenati. Un luogo di paura e di morte, e, anche, di follia». Ma questa «pienezza di coscienza e di trascendimento artistico – conclude Mineo – ha bisogno di incontrarsi con tempi di intenso impegno morale e ideale e di tensione culturale», perché possa essere «veramente recepita nella sua profondità».

Ed è proprio al contesto siciliano che va pur sempre ricondotta, in ultima analisi, la narrativa verghiana come «a suo scenario naturale: i luoghi di quell’isola antica e densa di consapevolezze ancestrali, in cui si muovono i vinti e i vincitori e in cui si compone la biografia dell’autore». A evidenziarlo al nostro giornale è Paolo Patanè, coordinatore dei Comuni Unesco della Sicilia, secondo cui «il Centenario di Giovanni Verga ha così un programma che mi sembra ancora più ambizioso. Esso può infatti indagare nel genius loci di quella Sicilia per provare a raccontarne e, magari, mutarne la contemporaneità».

C’è infatti un drammatico e impellente bisogno «per un’isola “varia, multiplex, multiformis”, ma impoverita economicamente e socialmente: la necessità di riappropriarsi di una cultura resiliente e di celebrare la memoria di Verga non come evento per pochi eletti e appassionati, ma come generatore di nuove passioni in un vero processo di comunità».

Considerazioni, quest’ultime, che sono però maggiormente valide sia l’intera penisola sia al di là dei suoi confini, essendo l’intera produzione verghiana tutt’altro che localistica ma di respiro, in un certo qual senso, universale. Ecco perché è necessario, più che mai in questo centenario, ripartire innanzitutto dalla lettura delle opere del genio verista. Una lettura che non si fermi ai celebri romanzi come I Malavoglia e Mastro don Gesualdo o ad alcune acclamate novelle. Ma che investa l’intera produzione verghiana. Si potranno così scoprire perle di rara profondità e attualità qual è, ad esempio, Tentazione!, racconto di stupro e femminicidio (e, ancor più, terrificante affresco della patologia del desiderio) che, contenuto nella raccolta Drammi intimi (1884), si conclude così: «Quando ripensavano poi […] com’era stato il guaio, gli pareva d’impazzire, una cosa dopo l’altra, e come si può arrivare ad avere il sangue nelle mani cominciando dallo scherzare».

Come spiega a Linkiesta la scrittrice Nadia Terranova, il cui ultimo romanzo Trema la notte uscirà il 22 prossimo, «in quelle due righe finali c’è, a mio parere, tutto. C’è quello che accade veramente e non vorremmo. Perché, in un secondo tempo, non vorremmo pensare che possa succedere tutto ciò: che dallo scherzare, cioè, si arrivi al sangue. Ma io credo che ci sia in questa novella, perfetta e agghiacciante, tutta la parabola dell’inconsapevolezza, di essere portatori di una cultura patriarcale e di esserlo profondamente dentro, di credere davvero di scherzare con una donna che viene oggettivata. E poi di avere paura perché si sente che quell’oggetto si sta ribellando, perché non è un oggetto ma una persona. E di lì a scivolare nel crimine. Sì, davvero Tentazione! è una novella perfetta ma agghiacciante».

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